"Pane amaro" di Franco Simoncini
(Bemporad, Firenze 1928)
(...) V'è nella sofferenza dell'esule, qualcosa di profondamente diverso dalla sofferenza degli altri. Più che una diversità anzi è un aggravio di pena. Il dolore viene moltiplicato per una quantità di fattori, ignoti a chi ha l'immensa fortuna di vivere e, se è destinato, soffrire in patria.
Prima fra tutti, più cocente, l'umiliazione immensa, di fronte agl'indigeni. Bisogna aver notato lo sguardo degli stranieri verso la miseria dell'emigrante, per comprendere l'enormità della tortura morale, che si aggiunge alla sofferenza fisica centuplicandola.
V'è qualcosa di talmente offensivo che il sangue ghiaccia. Non c'è ombra di carità, ma sdegno. Non un barlume di pietà, ma disprezzo. Non v'è la mitezza delo sguardo che accarezza anche un cane raggomitolato nell'angolo più oscuro della stazione, ma un lampo di protesta, contro l'insulto che vien fatto alla loro dignità di uomini, con l'esposizione di miserie che ripugnano alla sensibilità di persone superiori.
Giacché l'emigrante miserabile, appartenga pure alla più nobile razza del mondo, è sempre un soggetto inferiore. L'antico istinto dei tempi andati, quando gli stranieri erano considerati non solo moralmente, ma anche giuridicamente inferiori, non è spento. Esso rivive nell'animo dei popoli, che, possedendo il mondo, ritengono d'avere anche il privilegio d'una civiltà superiore, degna della loro razza che ritengono eletta fra le altre...
("Pane amaro", pag. 189-190)